Trarre beneficio psicofisico dalla vicinanza di un animale domestico è la finalità della Pet Therapy, una scienza nata nel 1961 negli Stati Uniti che, da qualche anno, inizia a suscitare interesse anche in Italia…
Le alternative alla medicina e alle terapie tradizionali sono sempre state fonte di discussione e di curiosità. Nel caso della Pet Therapy, non si parla di una terapia alternativa ma piuttosto di una terapia, da integrare alle normali cure mediche, che sembra produrre interessanti risultati. Quella che in italiano viene chiamata anche zooterapia, fu introdotta nel 1953 dallo psichiatra infantile Boris Levinson, che mise in correlazione il benessere dei suoi pazienti e la compagnia dei loro animali domestici. Successivamente, gli studi di questo tipo di approccio si sono intensificati fino alla nascita, nel 1981, della statunitense Delta Society, che si occupa specificatamente dello studio sui benefici prodotti dalla compagnia degli animali.
La sperimentazione della Pet Therapy all’interno di strutture come ospedali, carceri, scuole, case di cura, ecc… hanno mostrato che i pazienti - senza distinzione di età, sesso e stato sociale - in contatto con un animale domestico, sviluppano un livello più alto di socializzazione e di benessere psicofisico, rispetto ad altri ai quali non è stato affidato un animale da compagnia. L’individuo, a contatto con l’animale, è costretto a rituali quotidiani di accudimento, che rafforzano il suo senso di utilità e gli infondono una sicurezza data da un punto di riferimento sempre presente. Depressione e stress vengono quindi notevolmente ridotti, grazie allo scambio reciproco di affetto con l’animale domesticoChi, almeno una volta nella vita, non si è sentito particolarmente triste e non si è consolato, almeno parzialmente, grazie ad una carezza al proprio cane o al proprio gatto (ma anche dal proprio coniglietto, criceto, cavallo o pappagallino che sia)? E quanto volte ci siamo sentiti come capiti proprio dai nostri amici a quattro (o a due) zampe? Il contatto con l’animale favorisce infatti, da ambo le parti, un allenamento di codificazione dei messaggi, che diventano sempre meno ambigui grazie all’esperienza. Inoltre, alcuni tipi di Pet Therapy offrono un aiuto anche ai portatori di handicap fisici e favoriscono l’attività motoria, il gioco, nonché incontri sociali con altre persone; ad esempio durante le passeggiate al parco con il proprio cane, o le chiacchierate al negozio di animali, dove tutti i clienti presenti condividono un amore comune per il loro piccolo grande amico. Tutto questo non può che portare buonumore e rappresentare una soluzione positiva ai problemi del paziente.
Tuttavia, la Pet Teraphy non è da considerarsi una terapia completa ed efficace sempre e comunque. Tanto meno una terapia “fai-da-te”, se il malessere da curare è profondo. Bisogna infatti che questa sia supportata da esperti, sia del comportamento umano che di quello animale, e che venga gestita in modo differente, a seconda dei casi, affiancandola anche ad una terapia psicologica o farmacologica, quando è necessario. Inoltre, dal momento che per il paziente, la Pet Therapy comporta l’assumersi di responsabilità serie nei confronti di un altro essere vivente, è necessario che questo si avvalga di tale terapia in un momento in cui ha le potenzialità per non causare danni all’animale; proprio per questo, in alcuni casi si preferisce prima testare la responsabilità del paziente affidandogli la cura di una pianta (è celebre l’esempio del bellissimo film “28 giorni”, con Sandra Bullock).
E’ altrettanto importante che la scelta dell’animale terapeutico sia basata sulle caratteristiche di bassa reattività in presenza di molte persone o animali, alto grado di memoria, sopportazione agli stimoli negativi, ecc… Nell’applicazione professionale della Pet Therapy, esistono, per questo motivo, vere e proprie selezioni e addestramenti per gli animali destinati alla compagnia di persone affette da malattie psichiche o fisiche. Inoltre, così come il paziente umano, anche l’animale va monitorato per verificare che da “dottore” non passi a diventare lui il “malato”!
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